Articolo di Gianpaolo Sarti apparso su “Il Piccolo” il 6 aprile 2020 (3 pagine) (cliccare le freccette qua sotto per scorrere tra le pagine e i simboli + e – per ingrandire i rimpicciolire) il_piccolo_pegasos


L’ultimo viaggio, insieme, verso la morte La scelta di libertà di Arrigo e Monika

Dopo 55 anni trascorsi «come una cosa sola», i due coniugi triestini hanno deciso di andarsene nello stesso istante in un appartamento pieno di luce in Svizzera. Con Frank Sinatra in sottofondo e le tre figlie nella stanza accanto Mano nella mano, come addormentati. «Quando io e le mie sorelle siamo entrate nella stanza e mamma e papà ormai erano spirati – racconta una delle tre figlie, la quarantanovenne Raffaela – non c’era sofferenza nei loro volti. Non c’era dolore. Erano volti sereni». L’orologio segna le 12.07. È il 24 febbraio scorso. Quella non è la stanza di una clinica, ma di un appartamento. A Liestal, Basilea. Svizzera. È un alloggio affittato dalla “Pegasos Swiss Association”, un’organizzazione senza fini di lucro che si occupa di accompagnare le persone a morire. Accompagnamento alla morte volontaria, si dice. Suicidio assistito. Sul letto sono distesi Arrigo Crisciani, 81 anni, e Monika Schnell, 77. Marito e moglie. Triestini. La malattia aveva piegato le loro esistenze. E per Arrigo senza possibilità alcuna di recupero. Così hanno deciso di andarsene insieme, dopo cinquantacinque anni di amore totale, assoluto. «Le loro vite erano una cosa sola – spiega Raffaela – hanno scelto una fine dignitosa, desiderata con tutto il loro cuore. È stata una scelta ponderata. Volevano morire nello stesso momento perché per mamma e per papà, l’una senza l’altro, sarebbe stato straziante continuare». Tra pratiche burocratiche, viaggio in Svizzera, accertamenti e colloqui con l’équipe dell’associazione, ci sono volute non più di due settimane e un versamento di 20 mila euro: 10 mila a testa, tanto costano le pratiche, i professionisti coinvolti, l’affitto dell’alloggio, il farmaco da iniettare, la spedizione delle ceneri.

LA MALATTIA E IL FINE VITA

Arrigo Crisciani, ex assicuratore, è malato terminale. Da anni lotta con un’insufficienza renale e i postumi di un infarto. Vive con cinque bypass e un defibrillatore. È iperteso e ha un’artrosi diffusa che gli procura dolori lancinanti. Sta in piedi a fatica. Negli ultimi mesi aveva rifiutato la dialisi, che considerava un accanimento. Di notte non può dormire disteso a letto: può farlo solo per qualche ora, seduto su una poltrona. Ed è quasi cieco perché in passato, a causa di un incidente domestico, ha perso la funzionalità di un occhio. Anche la moglie, Monika Schnell, ha problemi di salute. La settantasettenne, originaria di Francoforte, ex insegnante di tedesco, soffre di fibrillazione atriale, ha un’artrosi all’anca e un’invalidità a un braccio, che non può più usare. Dorme solo con sonniferi. «Più stava male lui, più stava male lei», dice Raffaela. Ma è la moglie ad assistere il marito, come può. Fa fatica: Arrigo è un omone di 1 metro e 90, pesa. Quando cade a terra è un dramma. «Papà soffriva molto per la perdita della sua dignità personale», riflette la figlia. «Tra i miei genitori c’era un rapporto di fusione. Avevano sempre detto che per loro sopravvivere l’una all’altro, non sarebbe stata opzione da considerare – ribadisce -. Papà era in fase terminale e mamma ha voluto seguirlo». La coppia è iscritta da anni sia alla Exit Italia sia alla Dignitas, in Svizzera, associazioni che si battono per un fine vita dignitoso. I coniugi Crisciani sostengono l’associazione Luca Coscioni e seguono il dibattito pubblico sull’eutanasia, tanto più dopo il caso di dj Fabo. «In famiglia avevano sempre detto che quando sarebbe arrivato il momento se ne sarebbero andati insieme», riprende la figlia. «Lo avevano detto ad amici e parenti. Ma erano anche consapevoli che, nonostante i proclami politici, in Italia sarebbe stato difficile che qualcuno si prendesse la briga di occuparsi di una così delicata questione». A gennaio, quando la situazione di salute del padre si aggrava, Raffaela contatta le due sorelle che vivono all’estero, una in Germania e l’altra in Guatemala: la cinquantaquattrenne Cristina e la quarantaseienne Stefania.

L’ULTIMO MESE IN FAMIGLIA

Raffaela, Cristina e Stefania, trascorrono l’ultimo mese a casa, a Trieste, con mamma e papà. E per Arrigo chiedono le cure palliative. Ma la decisione di morire, per quanto già presa dai due coniugi, è ancora in discussione: le sorelle provano a prospettare alla madre, che sarebbe presto rimasta vedova, soluzioni diverse: una casa di riposo, ad esempio, o un’assistenza domiciliare permanente. «Alla fine i nostri genitori ci hanno parlato chiaro – ripercorre Raffaela –, ci hanno confermato che la loro unica volontà era quella di spegnersi assieme e con dignità. Ci hanno detto che il loro ciclo vitale era concluso, che erano felici di ciò che la vita aveva riservato loro: l’amore che li univa da cinquantacinque anni, i figli e i nipoti. E i viaggi che avevano fatto, la loro passione. Devo dire che quell’ultimo mese trascorso a casa a Trieste è stato intenso. Abbiamo pianto, riso e scherzato. Ci siamo abbracciati… abbiamo chiarito malintesi rimasti in sospeso. Ci siamo detti “ti voglio bene” senza imbarazzo. Ricordo – conclude Raffaela – anche un abbraccio a cinque, tra figlie e genitori, quando ci siamo commosse. Mamma e papà erano sereni e ci hanno detto grazie di lasciarli andare».

LA SVIZZERA

Il 5 febbraio Raffaela contatta la Pegasos di Basilea per domandare di accogliere entrambi i genitori. Ma prima di farlo, e su richiesta della madre, la figlia scrive all’associazione Luca Coscioni per verificare se in Italia c’è la possibilità di rivolgersi a una struttura o a un medico per l’accompagnamento al fine vita. La riposta è negativa: non si può fare. «Nonostante la pronuncia della Corte Costituzionale sulla vicenda di Dj Fabo – spiega Raffaela – ci siamo resi conto che di fatto qui non è cambiato nulla». Non resta che la Svizzera. Il 7 febbraio, due giorni dopo l’invio della richiesta a Basilea, la famiglia riceve una mail dalla Pegasos: sì, è possibile. L’associazione chiede la documentazione medica. Partono gli accertamenti sulla coppia, anche sotto il profilo psicologico. Va insomma valutata fino in fondo la consapevolezza di una scelta del genere. Il 20 febbraio arriva dalla Pegasos il nulla osta. Viene fissata una data: il 24 febbraio. Quattro giorni dopo. IL VIAGGIO Le sorelle prenotano il volo per la Svizzera. Non è un viaggio semplice per i genitori. Arrigo fa molta fatica. I due coniugi, accompagnati dalle tre figlie, arrivano a Basilea il pomeriggio del 23 febbraio. In un albergo incontrano il presidente dell’associazione e il medico che il giorno dopo si sarebbe occupato dell’iniezione. È un anestesista che fa il rianimatore nei soccorsi con gli elicotteri. «Questa dualità – osserva Raffaela – mi ha colpito: un medico che da un lato accompagna le persone a un fine vita sereno e che dall’altro salva vite». Il responsabile dell’associazione e l’anestesista chiedono ad Arrigo e Monika di descrivere la loro storia e cosa provano. «Poi ci hanno spiegato nel dettaglio cosa sarebbe successo il giorno dopo, ribadendo più volte che se mamma e papà avessero cambiato idea, anche all’ultimo istante, non ci sarebbe stato alcun problema. Erano liberi di tirarsi indietro quando volevano. In tal caso sarebbero stati restituiti i soldi versati, trattenendo solo le spese di gestione della pratica».

L’APPARTAMENTO E LA RIPRESA VIDEO

La mattina del 24 febbraio la famiglia viene accompagnata dal medico e dal presidente dell’associazione nell’alloggio dove sarebbe avvenuta la somministrazione del farmaco letale: il Nembutal. Non un ospedale, dunque, né una clinica. «Anche questo ha avuto un’importanza – commenta Raffaela – perché siamo entrati in un ambiente luminoso, confortevole». Serve ancora qualche minuto per chiudere le pratiche burocratiche, poi è il momento dell’ultimo raccoglimento. Mamma, papà e figlie restano soli nel salotto. «Quando i miei genitori si sono sentiti pronti si sono ritirati in una stanza attigua, una camera da letto». Prima di iniziare le procedure l’ultimo atto è una ripresa video, necessaria all’autorità giudiziaria, in cui Monika e Arrigo dichiarano le proprie generalità, spiegano il motivo della scelta ed esprimono la loro piena consapevolezza che l’assunzione del farmaco li avrebbe fatti addormentare e che sarebbero morti. La coppia ha potuto scegliere se prendere il medicinale per via orale o se assumerlo in endovena, quindi con una flebo. I due coniugi hanno chiesto la flebo, chiedendo di stare vicini.

LA FLEBO

Marito e moglie sono distesi su un letto della camera, entrambi con l’ago infilato in una vena della mano e con le flebo accanto. Arrigo, dopo tanti mesi passati in casa con addosso solo tuta e ciabatte, quella mattina è in camicia e cardigan. Nel taschino ha il suo piccolo pettine, come un tempo. Monika, donna elegante, è in completo beige con foulard in tinta. «Quella mattina – ripercorre Raffaela – ho domandato a mamma se poi avrei potuto tenere il suo foulard come ricordo, per sentire ancora il suo profumo. Lei se l’è tolto dal collo e me l’ha dato». C’è silenzio nella stanza. Le luci sono soffuse. Dal salottino accanto si sentono le note di “My way” di Frank Sinatra: un desiderio della coppia. Arrigo e Monika si prendo per mano, per l’ultima volta. Per attivare l’iniezione del Nembutal c’è una rotellina, sensibile anche a un lieve movimento. Sono Arrigo e Monika, per legge, a doverla spingere: secondo le norme svizzere sul suicidio assistito non può farlo nessun altro. E così è. La sedazione dura 30-40 secondi. Si addormentano. I cuori smettono di battere dopo 3 minuti. È un passaggio dal sonno alla morte. «Noi, come figlie, avevamo la possibilità di stare nella stanza – racconta Raffaela – ma mamma e papà ci avevano detto che quello era un momento solo loro. Noi quindi ci siamo ritirate nel salotto vicino. Quando tutto era finito, siamo entrate. Li abbiamo trovati mano nella mano e con un’espressione serena e rilassata. Per me è stato importante: vedendoli così, ho capito che davvero è stato un passaggio totalmente indolore».

GLI AGENTI E IL MAGISTRATO

Nell’appartamento, poco dopo, arrivano un magistrato, un medico legale e la polizia. «Sono stati tutti molti gentili – spiega Raffaela –. Ci hanno fatto le domande di rito e hanno controllato i documenti. Come atto conclusivo, abbiamo dovuto scegliere se farci arrivare le ceneri delle salme a casa, oppure disperderle in Svizzera. Abbiamo scelto di riceverle a Trieste. Non c’è stato nessun funerale, i miei genitori non lo hanno voluto. Hanno chiesto, piuttosto, di fare più avanti un brindisi con tutta la famiglia in loro memoria».

IL DOPO

«Mamma e papà ci hanno domandato di pensarli senza tristezza, di guardare avanti e di vivere appieno le nostre vite», precisa Raffaela. «Tornando a casa ci siamo chieste, tra sorelle, quali strascichi ci poteva lasciare dentro una esperienza del genere. Ma mai ci saremmo aspettate di provare una sensazione di pace interiore. In questo momento di lutto, riusciamo ad avere la forza di ricordare i genitori con nostalgia, perché ci mancano, ma è una nostalgia dolce. Non c’è disperazione. In questi giorni vedo in tv le persone che muoiono da sole in ospedale a causa del virus… penso che noi abbiamo avuto il privilegio di vivere un lungo addio, sereno». Quando le figlie sono andate nella casa dei genitori, dopo il decesso, hanno trovato un libro di Umberto Veronesi. Si intitola “Il diritto di morire”. Dentro c’era una frase dello scrittore Luca Goldoni, sottolineata più volte. Dice questo: “Vogliamo avere il diritto di andarcene appena viene il buio, decidendolo ora, quando la luce è ancora accesa”. —